...una voce...tante emozioni...un viaggio...tante voci...un libro...le voci in viaggio...
Siamo un gruppo di persone che Ama la lettura e ha deciso di mettere in valigia storie, racconti, fiabe, poesie e di partire per un lungo Viaggio, in mezzo alla gente.
Ad ogni tappa del nostro cammino trasmettiamo con la nostra Voce emozioni che partono da Viaggi lontani, a volte persi nel tempo.
Leggendo parole scritte da vite più o meno note, ma che hanno lasciato un segno nella storia del mondo, possiamo leggere la vita di tutti i giorni e cominciare a scrivere quella che verrà.
L’emozione più grande è leggere negli occhi e nel cuore di chi ti ascolta la condivisione di ciò che arriva dalla nostra anima.
Ed è l’inizio di un nuovo Viaggio…


Le Voci Consigliano

mercoledì 16 dicembre 2015

Natale in poesia.


NataleNon ho voglia di tuffarmi
in un gomitolo di strade
Ho tanta stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi cosi
come una cosa posata
in un angolo
e dimenticata
Qui non si sente altro
che il caldo buono
Sto con le quattro
capriole di fumo
del focolare
Giuseppe Ungaretti 

venerdì 4 dicembre 2015

Pomeriggio d'incanto.








Pomeriggio incantato.
Biblioteca di Codognè TV
Grazie!

venerdì 20 novembre 2015

Aspettando San Nicolò con le Voci in Viaggio



Un assaggio?

"San Nicolò perse una scarpa a Codognè che passo di mano in mano per arrivare a...."

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"Un giorno Re Edore...sì, Edore, non Erode, beh, insomma Re Edore proclamò che..."

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"Dove mette le renne Babbo Natale quando va in Australia?"

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"Un uccellino voleva stare vicino a Gesù Bambino e...."

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"Quell'anno, Babbo Natale, non sentì la sveglia e così...."

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"Ma San Nicolò aveva le scarpe o gli stivali?"

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"Il pupazzo di neve non ne voleva sapere di...."


Volete sapere come va a finire? 

Vi aspettiamo

SABATO 28 NOVEMBRE

alle 16,15

presso la Biblioteca di Codognè TV




martedì 10 novembre 2015

Natale...che Storie

SECONDA EDIZIONE sabato 28 novembre a Codognè. 
Dopo il successo della prima edizione riproponiamo, rivisitato, l'evento che ha affascinato grandi e piccini lo scorso anno.
La cornice di quest'anno sarà la biblioteca di Codognè.
Inizieremo attorno alle 16,15.
Che dire ancora?
Se volete passare un pomeriggio diverso, caldo, intimo, avvolgente, questa sarà la vostra meta.

mercoledì 4 novembre 2015

Altri inizi.




ALTRI INIZI

È arrivato a passi lenti.
Accolto dalle voci di bimbi e ragazzi riuniti attorno al fuoco, al ritmo delle mani che battono su vecchie taniche usate come tamburi. 
Sotto un cielo stellato, che in queste terre si mostra in tutta la sua potenza,il suo predecessore gli ha dato il benvenuto e, intrecciando passi di danza nei cortili delle case, gli ha passato il testimone.
Nell’aria il profumo di un  pane grande e molto lievitato che le donne preparano per quest’occasione.
La tradizione vuole che la mattina seguente siano i canti e i disegni delle bimbe ad accompagnarlo per le stradine di Goba, casa per casa.
Lui è l’Anno Nuovo, il 2008, secondo il calendario giuliano.
È iniziato il primo settembre del calendario etiope, mentre in quasi tutto il resto del mondo era il 13 settembre, un “normale” sabato di settembre.
Si sa in ogni angolo della terra ogni inizio libera speranza: ci si augura che i giorni  futuri siano migliori di quelli passati.  Non ha importanza se le poche piogge dei mesi scorsi hanno già messo in allarme governo e organizzazioni, che prevedono per il prossimo anno un’emergenza nutrizionale. Significa che non ci sarà abbastanza cibo per tutti.

Ed ecco come lo abbiamo accolto noi questo anno.
Noi: stranieri in questa terra, abituati ad altri tempi, ma curiosi di conoscere il Nuovo di  questa gente.
La vigilia, a cavallo di una delle poche biciclette di Goba, dentro una busta gialla indirizzata a Mr. Stefano e Hanna, è arrivata la lettera del nostro insegnante di amarico che rinnovava l’ invito al pranzo di Capodanno, annunciato già due mesi prima.
Sempre lo stesso giorno (la vigilia) tre squilli di telefono, di tre diverse famiglie, chiedevano di condividere con loro il tanto atteso pranzo di inizio anno.
Tre sono state le case che siamo riusciti araggiungere.
La moglie del nostro insegnante di amarico ha portato in tavola (tavolino, quello del salotto!)grandi quantità di carne cotta in modi differenti, e ha riservato a noi ospiti i pezzi migliori, riempiendo più volte, soddisfatta, i nostri piatti foderati di injera. Il pollo (accompagnato da una salsa ben piccante) e la pecora, allevati in casa per parecchio tempo, vengono cucinati per il pranzo del primo dell’anno.
Insieme a noi: due dei loro quattro figli, il più piccolo, il medio, di ritorno a Goba per le vacanze di fine anno dalla lontana cittadina dove frequenta l’università, e… la televisione che trasmetteva le immagini dei festeggiamenti della sera precedente nelle diverse zone del paese.
Qui si mangia rigorosamente con le mani e quando io ho tentato di prendere un fazzoletto di carta intenzionata ad afferrare il bicchiere, mi sono vista strappare il tovagliolo di mano, non una ma ben due volte,  da Assefa, il padrone di casa. Sbalordita non capivo cosa stesse accadendo. Ho compreso solo poi… Lui pensava che io, ancora con il piatto pieno, avessi terminato di mangiare, e la cosa sarebbe stata inaccettabile.  Qui infatti ci si pulisce, o ci si lava le mani, solo nel momento in cui il piatto è vuoto.
Il pranzo si è concluso con il caffè e, per Assefa, anche con un po’ di chat masticato in allegria.
E così dalla casa del nostro insegnate di amarico siamo tornati con un souvenir… due canne da zucchero, lunghe ciascuna due metri, che la moglie ha sradicato dal loro canneto. 
Abbiamo camminato fino a casa portandole in spalla, e ci siamo preparati per la seconda tappa.
A casa di Afework, dove già avevamo festeggiato la Pasqua, ci attendeva la famiglia riunita e la nostra bevanda preferita… l’Ambo: acqua frizzante, molto frizzante, prodotta qui in Etiopia. Comprata e messa in frigo in vista del nostro arrivo. Accortezze che lasciano piacevolmente sorpresi, in un luogo in cui, per l’atmosfera e l’accoglienza attenta e rispettosa delle persone che vi abitano, ci si sente, inaspettatamente, un po’ a casa.
Sono stati clementi,  e ci hanno offerto un piatto in due… a colorare l’injera, stesa sul piatto, l’uovo condito con la salsa rossa, preparata con pomodoro, burro e spezie. Poi il pane e i biscotti fatti in casa, il caffè, i pop corn…  Sotto lo sguardo vigile e saggio della capo-famiglia che, seduta davanti al tavolino per la cerimonia del caffè, si gode la sua famiglia: la sorella e la nipote arrivate dalle capitale, e i figli che hanno lasciato Goba, per le città, ma che tornano per la festa.
Me ne sono andata con un sacchetto di farina scura, ricevuto, dopo aver apprezzato la qualità del pane cucinato dalla padrona di casa.
La terza casa è stata quella di Ato, uno dei funzionari della zona che collaborano al progetto di Stefano. Noi con il capo famiglia abbiamo cenato seduti sul divano di casa, la moglie nella stessa stanza, seduta su uno sgabellino accanto al tavolino dove si prepara il caffè, e il figlio più piccolo che correva avanti e indietro fermandosi ogni tanto a fissare divertito gli “strani” ospiti appollaiati sul suo divano.
In tavola un grande piatto da portata suddiviso in tanti scomparti, in ognuno una pietanza: c’era il riso con due diversi condimenti, le verdure cotte, diversi tipi di carne… e oltre al grande piatto variopinto altre pentole, insalata e pomodoro del loro orto, un vassoio di frutta (con mele del loro frutteto!).
Terminiamo la serata sfogliando insieme a loro l’album di una vita: la gioventù, il matrimonio, i figli… Un po’ come sbirciare nelle loro storie.
È buio quando usciamo e, camminando con noi, Ato ci ha accompagnato fino al cancello di casa. Una torcia a illuminare i nostri passi.
Inizi che appartengono a un mondo che non è il nostro, ma “c’è da scambiarsi il coriandolo di usi e di costumi”. Ci sono stanze da abitare, tavoli a cui pranzare, pietanze da condividere, che non ci appartengono ma che ogni tanto nella vita vanno visitate, vanno avvicinati, vanno assaggiate. Non occorre andare lontano.

                                                                                                                                                                                 Anna

Anna Zoppas da Goba, Etiopia.

mercoledì 28 ottobre 2015

Voce da un Amico




Camminavo
assorto nei miei pensieri
e non vedevo niente intorno a me.
La testa era pesante
i pensieri erano talmente carichi di
ansia e preoccupazione,
che la loro pressione mi bloccava i nervi e il respiro non poteva che diventare sospiro.
Poi ho lasciato che il ritmo del passo,
la sua magia,
riattivasse i miei desideri più veri.
E ho ripreso a guardare la vita con benevolenza.
E ho scoperto una passione tumultuosa e infinita
come torrente di montagna.
Ma non ho ancora capito bene.
No.
Non mi può bastare la bellezza e l'amore.
Mi serve il machete per ripulire il groviglio delle mie emozioni.
Voglio imparare a dire....
mi hai fatto male e basta.
Voglio essere vero fino al punto
di non stemperare più la mia rabbia con la comprensione.
Non mi interessa farti del male.
Mi interessa poter essere me stesso
e ti giuro
che l'acqua fredda del torrente
mi ha completamente risvegliato


Andrea Libero 
https://www.facebook.com/andrea.libero.7393

lunedì 19 ottobre 2015

Le voci incontrano Stefano Benni

Sabato 17 ottobre, è una data che personalmente, nella mia memoria di lettrice e di Voce in Viaggio, terro’ racchiusa nel baule dei ricordi.

Lo scorso sabato, lo scrittore Stefano Benni, è stato ospite al Festival Carta e Carbone di Treviso, e siamo riusciti a essere presenti per assaporare le parole dello scrittore che personalmente ho sempre amato.
Cominciando da Bar Sport e la famosa “Luisona” mi ha fatto crescere un po’ trasognante come Margherita Dolcevita. Negli anni ho sognato di avere un Obivilogio come Saltatempo,  per viaggiare avanti e indietro nel tempo. Ho amato tanti suoi personaggi, e poterlo ascoltare di persona è stato un vero onore.

L’auditorium del museo Santa Caterina era pieno, e nonostante l’incontro fosse dedicato alla presentazione del suo ultimo romanzo  “cari mostri”, Stefano Benni ha fatto un excursus dei suoi personaggi, lasciando spazio alle domande del pubblico. Ha spiegato il mondo di Fantasilandia, spaziando sul romanzo di Elianto, raccontando poi da dove è nato nonno Telemaco facendo riferimenti ai ricordi della propria infanzia. Il tutto condito dall’ironia che lo contraddistingue.

Al termine dell’incontro siamo riusciti a regalare al maestro un piccolo omaggio da parte delle Voci in Viaggio; un piccolo segno di stima verso questo creatore di spazi fantastici e di personaggi esilaranti e fantasiosi, che hanno accompagnato e che accompagneranno le nostre avventure “ letturesche”. 






Un viaggio.


Finalmente si parte. Abbiamo aspettato tutta l’estate con impazienza mista a gioia per questo primo viaggio in aereo. Destinazione Trapani e la splendida isola di Marettimo. Siamo qui sedute strette strette su questa macchina con le ali. Siamo già sopra le nuvole, felici e serene come due bambine, senza paura ma con una grande carica. Tutto è così bello da sembrare quasi un sogno. Ecco Erice, Trapani, si avvicinano con le loro luci. Si atterra con un patapum. Ma anche questo nel sogno ci sta. Trapani di sera, centro storico, pieno di gente, di luci, di musica, di profumi, mi sa che il sogno è diventato realtà. Tutto ti avvolge, ti accoglie. Mi meraviglio di tanta bellezza, grandezza, tanta storia e tanta contemporaneità. Tanti giovani, colorati, sorridenti, aperti a questo loro paese che amano e che li ama. Il giorno appresso usciamo un po’ sul tardi, e subito vengo sorpresa da questa nuova luce, questo nuovo sole. La luce e il sole sono come una veste a festa. Luminosa e calda, ma non soffocante. Così mi sento! Il viso, la mia pelle troppo pallidi per questi luoghi, nel giro di poche ore sono già color ambra. Entriamo in un vecchio forno, aperto diciotto ore al giorno. Incontriamo una donna, Silvana, che il fare pane e dolci era stato il suo sogno fin da sempre. Pane nero, con grano antico, ricoperto di semi di sesamo. Arancine che con la loro panatura illuminavano tutta la stanza. Cannoli grandi ricchi di ricotta di pecora freschissima. Quel giorno ci siamo messe a tavola con un rispetto  e attenzione nuovi per il cibo, soprattutto Sonia, che da più di quarant’anni ricordava questi luoghi e questi sapori. Vederla mangiare le arancine di riso era una bellezza, se le è godute pian piano. Mangiava riemergendo ogni tanto dai suoi ricordi di bambina. Il giorno dopo siamo partite per l’isola di Marettimo. Aliscafo, tanta gente, mare che sta lì a farsi ammirare, navigare, a volte tradisce, ma sempre bello, dai mille riflessi e colori. Un mare chiacchierone che ti vuole raccontare di sé, dei fratelli che ha incontrato, che ha custodito. Ma un mare sempre vero, anche quando il vento, le correnti, lo fanno diventare grosso, pericoloso, violento, e ti ricorda che ci vuole attesa, pazienza e ancora attesa per attraversare. E’ quello che è successo a Marettimo, l’isola dove Sonia ha passato una parte della sua infanzia. Un’isola disegnata da un artista molto ispirato, bella, anzi bellissima. Un pugno di case bianche con i balconi blu. Alle spalle una natura florida ricca di profumi e colori. Circondata da un mare che custodisce tanti segreti e tante meraviglie. Le grotte popolate da chissà quali creature. Facendo il giro con la barca mi sono immaginata creature fantastiche abitare questa bellezza. Ho iniziato questo viaggio con la volontà di lasciarmi condurre e guidare solo dalla bellezza che avrei incontrato. E’ stato un viaggio ricco, meraviglioso. La luce la ricordo tutti i giorni e cercherò di ricordarla il più a lungo possibile perché possa illuminare i momenti che mi sono bui.

mercoledì 14 ottobre 2015

Festa del Samhain, tra luce e buio.









Venite a vivere il SAMHAIN con LE VOCI IN VIAGGIO!

Samhain (31 Ottobre)


Agriturismo Le Noci Arfanta di Tarzo

Samhain è il più importante sabbat di tutta la ruota dell'anno. Samhain combina numerosi elementi sacri: il raccolto agricolo, il raccolto selvatico, la transizione della stagione autunnale e la commemorazione del giorno dei morti.
E'il momento per ricordare i nostri antenati e i nostri amati che ci hanno salutati. E' un tempo solenne legato alla contemplazione del mistero della vita e della morte.
Samhain è tempo di introspezione, di discernernimento del falso nella nostra vita, nel nostro cuore e nella nostra anima. E' il momento per guarire le ferite più profonde, per guardare laddove abbiamo cicatrici ancora evidenti, per riflettere sul dolore ricevuto ed inferto.

Adesso è il momento per osservare la natura delle nostre motivazioni e il risultato delle nostre azioni. Samhain vuol dire comunicare e ascoltare gli altri. Nostro è il tempo della morte e della rinascita.

Le foglie stanno cadendo, le mele sono mature ed il ghiaccio si posa sul terreno. C'è profumo di Autunno, un indescrivibile odore di Ottobre - zucche, mele, cannella, foglie secche e birra.
Con l'avvicinarsi di Samhain il velo tra i mondi diventa ogni notte più sottile. Potete percepirlo tutt'attorno che l' Altromondo si avvicina e la luce del sole si trasforma in luce del tramonto.

I nostri antenati sono celebrati a Samhain; è il tempo dei morti e dei morenti. Gli spiriti dei defunti sono più vicini ai nostri cuori in questo momento in cui persino la terra sta morendo.
Un umore malinconico e introspettivo scende su di noi in questo tempo oscuro di fini e completamenti ma anche di eventuali rinascite. Nelle ombre crescenti, l'oscurità e la nebbia prevalgono e anche gli alberi cedono le loro foglie prendendo anch'essi le sembianze di scheletri.


Per info. 338- 41.49.485

martedì 6 ottobre 2015

spizzicando nel blog de "ilmondodigalatea"



Integrazione culturale a Spinola: il cicchetto cinese

by ilmondodigalatea
Quando la notizia era circolata in paese, l'anno scorso, l'intera comunità ne era rimasta fortemente scossa. Gaspare, lo storico fritolìn di Spinea, passava ai Cinesi. Ci sono poche cose che destabilizzano la vita di un pensionato veneto, e la chiusura dell'osteria dove va a bersi, a qualsiasi ora del giorno, l'ombra di bianchetto e mangiare qualche cicchetto bisunto, è una di quelle. Restavano, per fortuna, da guardare i cantieri aperti e disseminati per tutto il paese. Ma senza potersi poi confortare con un bicchierino da Gaspare, persino il loro fascino veniva compromesso.
Per scongiurare l'evento i vecchietti di Spinola hanno tentato ogni strada. La prima è stata la moral suasion. Una delegazione di pensionati, capeggiata dall'ottantaduenne Olindo Spolaor, presidente del circolo di bocce, si è recata da Gaspare in missione. La mano sul cuore, Olindo ha sfoderato tutte le armi della retorica conosciute, ricordando non solo la comune ed ormai lontana gioventù, in cui lui e Gaspare saltavano per i fossi di una Spinola ancora bucolica, ma anche e soprattutto l'immenso investimento avvenuto negli ultimi cinquant'anni da parte di tutti gli abitanti del paese in polpettine bisunte, mozzarelle in carrozza grondanti non meglio definito olio vegetale, calici di dubbio prosecco e spritz annacquati. il rapporto fra Gaspare ed i suoi clienti era stato forte, quasi fossero una famiglia: e proprio per questo nessuno mai aveva invocato l'ufficio igiene per controllare il rispetto delle normative nella cucina alloggiata nel bugigattolo del retrobottega, lasciando che essa fosse un far west dove nessuna legge dello Stato italiano era applicata, soprattutto quelle riguardanti la conservazione e la cottura dei cibi.
Era stato un discorso commovente, che aveva usato tutti gli artifici della retorica antica e moderna, e Olindo si era erto nel mezzo del coro greco di vecchietti annuenti come un Menenio Agrippa redivivo. Ma non c'era stato nulla da fare. Gaspare aveva scosso il capo e commentato: «So' vecio
«Ma almanco non sta vender ai Cinesi!» aveva pietito il coro.
«Xè i unici che g'ha i schei
Di fronte a questa innegabile argomentazione cronologica e soprattutto economica, tutti gli artefici retorici erano andati a farsi benedire.
Olindo non si era rassegnato. Aveva quindi spostato il suo coro greco di vecchietti presso l'ufficio del Sempresindaco Taragnin, chiedendo udienza. Qui il dialogo aveva preso toni millenaristici. Il fritolìn! Ai Cinesi! Non era questione di soldi, era un problema di difesa della civiltà occidentale. C'era il serio rischio che torme di pensionati non avessero più il loro porto sicuro dove passare le giornate, per tacere della terribile e nefasta eventualità che i cicchetti bisunti e i bianchetti venissero sostituiti con chissà che intruglio di riso o conditi con la salsa di soia.
Al Sempresindaco Taragnin la gravità della questione non era sfuggita. Il suo zoccolo duro di voti dipende in gran parte dai pensionati di Olindo, e Taragnin è ben consapevole che un vecchietto a cui non sia garantito un fritolin come si deve è un vecchietto che poi non va a votare, o peggio usa la cabina elettorale per vendicarsi. Ma si è scontrato con i limiti del suo potere di Sindaco, per quanto di lunga data: Gaspare, da bravo bottegaio, ha fatto orecchie da mercante ai serveri richiami sindacheschi e persino alle velate minacce di mandare i NAS a controllare le cucine.
«Tanto g'ho za firmà el contrato.» ha spiegato, facendo spallucce a Taragnin e alla tradita civiltà occidentale.
Il Sempresindaco si è trovato imparpagliato: Da un lato un Gaspare irremovibile, dall'altro un comitato di vecchietti sempre più preoccupati e sul piede di guerra, che chiedevano azioni concrete da parte dell'Amministrazione. Ha così deciso di convocare in Comune i nuovi gestori cinesi, ovvero la bella Mei Mei e suo fratello Bo.
Non appena i due sono entrati nell'ufficio del Sempresindaco si è sentito un sonoro e rutilante crash di stereotipi culturali spatasciatisi a terra in mille pezzi, e di botto. Pronto a ricevere una coppia di immigrati di modesta condizione e di scarsa malizia, il Sempresindaco si è trovato davanti invece i due Mei, di cui l'una è una ragazza sveglia e minuta, ma con il caratterino di una tigre asiatica, che s'è presentata in tacco dodici, Luisvuitton d'ordinanza e aria palesemente scocciata, come la più integrata delle lady imprenditrici venete, l'altro è un ragazzone sorridente vestito Prada, laureato in legge a Padova, ed abituato a gestire il patrimonio di famiglia, che comprende tre alberghi e un numero imprecisato di bar sparsi in tutta la provincia.
Il colloquio è stato defatigante. Ogni velata minaccia di Taragnin è stata prontamente rispedita al mittente con sorridente perfidia orientale da Bo, che, da bravo avvocato, pur essendo cinese ha acquisito nell'ateneo patavino una capziosità bizantina nell'interpretare a suo favore le leggi. Ma ha anche imparato i fondamentali della cultura occidentale, ed italica nello specifico. Così alla fine ha voluto offrire all'avversario un compromesso per tacitare i vecchietti furiosi, garantendo che la nuova barista assunta sarebbe stata la figlia di Olindo Spolaor, da anni disoccupata.
Celebrato il compromesso storico ed etnico, il comitato dei vecchietti ha cambiato del tutto il suo approccio alla questione fritolin cinese. Olindo-Menenio Agrippa ha ricordato ai suoi, in una commmovente orazione, che Cina e Venezia sono amiche per lo meno dai tempi di Marco Polo, e che se a noi i Cinesi hanno insegnato come fare gli spaghetti, è dovere dei Veneti ricambiare consentendo loro di servire lo spritz.
Ieri pomeriggio, passando vicino al baretto ormai in gestione cinese da più di un mese, la scena era questa: il tavolo dei vecchietti, sotto la pergola di vite rossa, beveva bianchetti e giocava a briscola, intonando in coro Le glorie del nostro Leon.
E, per dare ulteriore prova di integrazione fra le nuove nazioni emergenti e la tradizione veneta autoctona, fra una carta e l'altra bestemmiavano come Turchi.
E' un racconto di fantasia che non riprende fatti o personaggi reali. Se qualcuno si riconosce, vuol dire che gli offro uno spritz cinese al baretto.

giovedì 24 settembre 2015

Per non dimenticare?




 ‘Questo è il nostro Israele, questo è per gli Ebrei. Nessun palestinese dovrebbe venire in Israele': Una storia palestino-americana di detenzione all’aeroporto Ben Gurion
George Khoury on July 29, 2015 88 Comments

Ben Gurion airport
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Sono nato a Gerusalemme Ovest (la cosiddetta metà ebraica di Gerusalemme) nel 1945. Sotto una pioggia di pallottole che volavano sopra le nostre teste, mio padre afferrò me e il resto della famiglia e fuggì verso la sua città natale di Nablus alla vigilia della creazione dello Stato di Israele nel 1948. Siamo rimasti a Rafidia-Nablus fino al 1952 e poi ci siamo trasferiti a Ramallah dove mio padre aveva ottenuto un impiego presso l’ufficio postale. Ho frequentato la scuola parrocchiale e sono entrato nel Seminario Patriarcale Latino a Beit Jala nel 1961 per studiare per diventare prete. Nel 1968 ho lasciato il seminario dove avevo studiato francese, latino oltre che filosofia e teologia. Sono venuto negli Stati Uniti nel settembre del 1969 e sono entrato alla Seton Hall University in South Orange, New Jersey, dove mi sono laureato con una specializzazione in lingue straniere (Francese e Spagnolo) e nel 1975  ho ottenuto un master dall’università di Montclair nel New Jersey.

Mi sono trasferito in California nel 1975 dove ho insegnato lingue straniere nelle scuole superiori. Mi sono iscritto alla facoltà di teologia nel 1983 presso Graduate Theological Union a Berkeley, California e ho ottenuto il dottorato nel 1990. Ho insegnato lingue al San Mateo College, Skyline College, e Westmoor High School. Mi sono iscritto al corso per diventare diacono permanente nel 2012 perchè è mia intenzione servire le varie comunità Ecclesiali come diacono nell’Arcidiocesi di San Francisco.
Dopo 21 anni che non visitavo Gerusalemme e la mia patria Palestina,  ho deciso di ritornarci, questa volta come cittadino americano con un passaporto statunitense, che possiedo dal lontano 1975. Questo viaggio voleva essere prima di tutto un pellegrinaggio religioso con Padre Bernard Poggi e poi una visita attesa da tanto tempo della mia terra natale, di amici e familiari che non vedevo da decenni. Una volta che siamo arrivati all’aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv, hanno permesso a Padre Bernard di entrare. Quando è venuto il mio turno, sono stato condotto da una giovane soldatessa in un “stanza verde” per essere interrogato.
La conversazione che ne seguì è questa:
Un agente della sicurezza dell’aeroporto ( che penso fosse un agente dello Shin Bet – i servizi segreti) incominciò:
Agente: “Ah, così sei venuto dall’aeroporto Ben Gurion ?”
Me: “Si. Cosa c’è che non va?”
Agente: “Non puoi farlo.”
Me: “Perchè? Ho un passaporto americano. Sono venuto con Padre Bernard, per passare qualche settimana a Gerusalemme, questo è tutto. Siamo venuti a fare un pellegrinaggio religioso e a far visita ad alcuni amici e parenti.”
Agente: “No no, non puoi andare in Israele. Avresti dovuto passare dal Ponte Allenby .”
Me: “Perchè avrei dovuto fare questo? Non sto entrando come Palestinese, sto venendo come cittadino americano.”
Agente: “No. Tu sei palestinese. Perchè stai negando di essere palestinese?”
Me: “Non sto negando di essere palestinese. Sono palestinese dalla testa ai piedi. Mio padre era palestinese, mia madre era palestinese. I miei fratelli sono palestinesi. Mia sorella è palestinese. Mio nonno era un prete ortodosso e posso tracciare le mie radici palestinesi per gli ultimi 500 anni. Cosa dice che sto negando? Non sto negando nulla.”
Agent: “No no, tu appartieni al popolo palestinese. Questo è il nostro Israele, questo è per gli Ebrei. Nessun palestinese dovrebbe venire in Israele. Avresti dovuto passare dal Ponte Allenby.”
Me: “Perché dice questo? Ho mai avuto un passaporto palestinese? Ho mai vissuto sotto l’Autorità Palestinese? Da quando venne costituita l’Autorità Palestinese non sono mai stato in Palestina e non ho mai avuto un passaporto palestinese.”
Agente: “Ma tu possiedi una Carta d’Identità israeliana .” [Egli fa riferimento alla CdI israeliana che mi venne rilasciata dopo che Israele aveva iniziato l’occupazione della Cisgiordania nel 1967. Ho avuto una CdI fino a quando sono partito per gli Stati Uniti nel 1969.]
Me: “Una CdI israeliana non è un passaporto palestinese. La CdI israeliana mi venne rilasciata quando ero a Beit Jala, quando stavo studiando per diventare prete ma lei non può equipararla ad un passaporto palestinese. Giuridicamente parlando, non sono mai stato cittadino di una nazione chiamata Palestina. Vengo con un passaporto americano e lei dovrebbe onorarlo.”
Agente: “Come vuoi che onori il tuo passaporto Americano? Vuoi che lo baci, lo abbracci o lo adori? Inoltre sei scortese e maleducato. Cosa hai da essere così prepotente? Sei un palestinese e sei brusco e maleducato.”
Me: “Non sono nè scortese nè maleducato, sto solo precisando i fatti. Le sto solo dicendo che sono americano, che sono un cittadino americano da 40 anni e che vivo in America da 46 anni. Così lei ignora tutti questi fatti legali e si focalizza soltanto sulla mia origine palestinese?”
Agente: “Sarai deportato in Giordania e entrerai dal Ponte Allemby per continuare la tua visita alla West Bank” [Il Ponte Allenby è il punto di collegamento tra la Giordania e Israele. I Palestinesi possono entrare nella West Bank soltanto attraverso questo ponte perchè non gli è loro permesso di entrare direttamente tramite Israele vero e proprio.]
Sono ritornato da Padre Bernard che mi stava aspettando. Ho raccontato a Padre Bernard che cosa era successo con l’agente dello Shin Beth e aspettammo. L’agente ritornò con i documenti della deportazione e, in presenza di Padre Bernard, mi fece capire che sarei stato deportato in Giordania. Rimasi in attesa fino a quando due altri ufficiali della sicurezza vennero da me e mi dissero “Non sarai deportato in Giordania ma dovrai tornare indietro da dove sei venuto.” [Aeroporto di Fiumicino, Italia]. Dissi, “Ma mi era appena stato detto che sarò deportato in Giordania.” Mi chiesero, “Chi ti ha detto questo?”
Risposi, “Non conosco il suo nome. Pensate che mi abbia detto il suo nome? E’ l’addetto alla sicurezza nell’ufficio e che mi ha appena fatto firmare i documenti di deportazione.” Mi dissero, “No, tu prima devi ritornare in Italia. Se quindi decidi di ritornare in Giordania dopo essere atterrato in Italia, quella è una tua scelta.” Ero scioccato ma non avevo scelta se non quella di continuare. Davanti agli ufficiali israeliani, Padre Bernard mi dà il suo numero telefonico in Giordania e ci siamo messi d’accordo che ci saremmo incontrati in Giordania il giorno dopo.
Io e padre Bernard ci separammo e tornai con gli ufficiali israeliani della sicurezza. Tennero me (e gli altri) in aeroporto fino all’1:30 di notte del 21 luglio. Alla fine ci portarono un sandwich. Tra gli altri che erano con me durante il questo calvario c’erano una donna palestinese e sua figlia ( che erano nate in Palestina ma cittadine americane). Avevano viaggiato assieme agli altri due figli della donna, ma siccome i due ragazzi erano nati in America, loro avevano potuto entrare in Israele. Gli ufficiali israeliani dissero alle due che sarebbero state rispedite negli USA ma separatamente. Entrambe scoppiarono a piangere e li supplicarono di essere deportate assieme ma senza risultato. C’era anche una giovane donna britannica che lavorava con un gruppo di diritti umani in Israele, una coreana e una giovane russa, nessuna delle due parlava molto inglese.
Ci condussero per mezzora via dall’aeroporto. Nella macchina condotta dagli Israeliani, un giovane coreano che a mala pena parlava un po’ d’inglese, affamato e senza soldi, chiese alla due guardie con voce estremamente flebile e in un cattivo inglese, “ Moriremo questa notte?” Eravamo trasportati in un furgone con le barre – fatto per i prigionieri. Ci tennero come criminali in una struttura di detenzione che chiamavano “emigrazione”, che non era altro che una prigione e così avrebbe dovuto chiamarsi, fino a quando siamo stati deportati.
Ci rinchiusero, mi proibirono personalmente di tenere il mio iPhone, rifiutarono che io prendessi un libro con me in quella sporca stanza e mi gettarono lì con un gruppo di poveri uomini, affamati e disorientati provenienti da diverse estrazioni nazionali ed etniche. Erano circa le 2 di notte.
Abbiamo passato l’intero martedì nel centro di detenzione senza sapere quando saremmo partiti. Ero rinchiuso in quella stanza con gli altri uomini. C’era una guardia araba attorno alla cella. Osai chiedergli “Conosci tutti i nostri nomi e tutto di noi. Come ti chiami tu?” Rispose, “Mi chiamo George.” Dal suo accento, mi sembrava che egli fosse di Nazareth.” Gli chiesi, “Perché ci trattate come prigionieri?” Disse, “E’ vero, lo siete.” Alla fine mi permise di usare il telefono per chiamare mia moglie, Nariman, per dirle dov’ero. Non so se avessi avuto il diritto ad una chiamata telefonica all’aeroporto, non lo so perché nessuno me l’ha mai detto. Le altre guardie rimasero totalmente anonime, ci insultavano usando un linguaggio irrispettoso ed offensivo e ci proibirono di parlarci da una cella all’altra, le celle erano separate da un lungo corridoio.  Non ho chiuso occhio perché hanno tenuto accese le forti luci al neon tutto il tempo.
Alle  4 quella mattina, la guardia venne a dirmi di prepararmi per il mio volo. Mi sentì parlare in arabo con la donna palestinese con la figlia che erano detenute nella cella di fronte alla mia. Quando ritornò quella mattina, la madre di Samar stava dicendo che forse stavano maltrattandoci un pò ma che alla fine ci avrebbero trasferiti in Giordania. Era molto arrabbiato e urlò, “Ti ho detto di non parlare con gli altri! Sto cercando di rispettarti! Cerca di rispettare te stesso. Va via dalla porta!”
Poi verso le 8 am una guardia entrò nella stanza e freneticamente mi prese dicendo che il mio aereo era pronto. Come un pazzo, mi condusse all’aeroporto e mi portò direttamente alla scala mobile e non attraverso l’aeroporto.
Proprio mentre stavo salendo sull’aereo, chiesi, “Dove esattamente mi state deportando?”
Disse, “Bogotà.”
Esclamai,“Bogota!? Perché?!”
“Non sei Carlos?” mi chiese.
“No, sono George Khoury! Fammi vedere il passaporto che hai tra le mani,” chiesi. Era quello di un colombiano di nome Carlos.
La guardia si rese conto dell’errore e freneticamente mi riportò di corsa al centro di detenzione. La dura corsa irritò malamente il mio nervo sciatico e ne soffro ancora molto. Ritornammo al centro di detenzione, e di nuovo in cella. Chiamò forte Carlos. Carlos stava dormendo e si svegliò. Disse, “Sono Carlos!” e venne portato via.
Senza entrare in ogni dettaglio, alle 9:30 am di mercoledì ritornarono e mi presero di nuovo. Mi condussero di nuovo sulla pista e aspettammo per un lungo tempo, verosimilmente fino a quando l’imbarco era completato e l’aereo pronto. Mi accompagnarono lungo tutto il cammino fino alla scala mobile. Fino a quel punto, mi era stato detto che avrei volato fino in Italia in modo che potessi ritornare in Giordania. Al momento di entrare nell’aereo, egli teneva in mano una serie di biglietti che mi avrebbero fatto volare negli Usa, via Italia, poi New York, poi San Francisco. L’agente italiano mi disse che mi avrebbe ridato il mio passaporto una volta fosse stato certo che io fossi sull’aereo diretto negli Stati Uniti. Questo è esattamente ciò che accadde. Quando arrivai in Italia, prima di uscire dall’aereo, chiesi alla hostess il mio passaporto. Mi disse che di questo si sarebbe occupato un uomo che mi attendeva fuori. Un ufficiale italiano mi stava aspettando in cima alle scale. Mi condusse con una jeep in un luogo lontano dall’aeroporto – una specie di stazione di polizia. Mi portò in una stanza con circa 5 o 6 persone dove ci si poteva muovere con fatica. Alle 5 del pomeriggio, salii sul volo diretto negli Stati Uniti dove mi venne consegnato il mio passaporto.
Arrivai a New York verso le 8 pm quel giorno. Dovetti rimanere in aeroporto fino all’indomani mattina quando mi imbarcai sul volo delle 6 am. Durante tutto il tempo avevo la borsa sul grembo tentando di chiudere gli occhi per brevi momenti, seduto su una dura panca contando i minuti e le ore fino all’ora del volo delle 6, stringendo cara la vita (la borsa, per fortuna, conteneva la mia insulina,il mio portafoglio e il mio iPhone. Sono diabetico e separarmi dalla mia medicina sarebbe stato fatale).
Arrivai a casa esausto giovedì alle 11:37 am. Chiamai la mia agenzia viaggi per sapere se avessi potuto essere rimborsato per la mia valigia rubata e per il biglietto di ritorno della KLM che non avevo utilizzato. Si scoprì che quei fondi erano già stati usati per pagare il mio trasferimento indietro negli USA.
Ora sono di ritorno a San Francisco. Mi hanno strappato qualcosa che avrebbe dovuto essere una vacanza dalle mie lunghe ore di lavoro, un ricollegarmi con la mia terra natale e i miei vecchi amici, e lo hanno trasformato in un incubo d’inferno. Mi hanno mancato di rispetto, svilito e trattato come se avessi commesso un crimine. Vi racconto la mia storia per incoraggiare la gente a visitare la Palestina per sfidare il teppismo di questa entità razzista e di farlo anche qui negli Stati uniti come anche in Israele. Sebbene in qualche modo estrema, questa non è una storia unica. Molti altri casi di arabi americani trattati in modo razzista dagli Israeliani ad ogni punto di entrata nello stato di Israele o nella west Bank sono stati documentati.
Molestie, detenzioni, ed interrogatori sono parte integrante degli sforzi dello Stato di Israele di tenere fuori i palestinesi da Israele-Palestina e  per portarci più ebrei. Sono i miei propri dollari di tasse USA—più di 3 miliardi di dollari di aiuti economici e militari - che finanziano l’oppressione del popolo palestinese. Senza il cieco e incondizionato sostegno finanziario e politico degli Stati Uniti ad Israele, l’occupazione e tutte le tragedie contro i palestinesi non continuerebbero!

Il link da cui è stato tratto questo documento che ho tradotto dall’inglese è:

Giacinto Feletto

venerdì 7 agosto 2015

Metti una sera di Luna piena.


Metti una sera di luna piena in un'estate un po' più calda rispetto le precedenti.
Un giro di mail per ritrovarsi.
Dove?
Lì!
Ovviamente lì, dove il passato ha ancora i suoi fantasmi buoni e dove il passaggio dell'indifferenza umana sulla natura continua a dare lo stimolo per resistere.
Ed esistere.
Un fuoco. Dei libri, Una chitarra. Qualcosa da bere e tanta fame di Lei, della Sua Luce che ci bagna e della sua magia.
Inizia la chitarra, continuano due voci che arrivano da dentro e che arrivano da viaggi lontani.
Poi le parole.
Poi i gesti che vogliono portarci fin sulla luna.
Poi ancora il coraggio di condividere parole ed emozioni.
Infine, per cominciare un nuovo viaggio, un cerchio buon augurante, ancora voci e passi.
Alla prossima luna piena di luglio....















martedì 21 luglio 2015

Alfabeto vitale



A Attesa. Quella di ogni giorno fuori dal cancello azzurro delle Suore di Madre Teresa. Sono in tanti, a
            qualsiasi ora del giorno. Gli uomini sono rari. Ad attendere sono le donne, ortodosse e mussulmane,
            tante hanno con sé bimbi piccoli. Ma ce ne sono di ogni età, dalle ragazze alle anziane. Vestiti
            consunti e alcune tinte forti che spiccano nel mucchio. Tutte hanno il capo coperto.
            Sedute in gruppi, accovacciate, alcune stese. A volte usano gli ombrelli per ripararsi
            dal sole. Aspettano la loro razione di cibo, il loro turno per chiedere farmaci, accoglienza per sé o
            qualche familiare, qualsiasi altra cosa di cui abbiano bisogno…
           
BBlu. Il colore delle divise dei bimbi in un asilo. Un centinaio per classe, tre per banco. Siamo in un villaggio
            a una quindicina di chilometri dalla cittadina di Robe, e l’asilo è gestito, a distanza, dalle suore
            Missionarie della Carità.
            È ordinato, curato e ben organizzato. All’esterno c’è un grande giardino, e un cavallo legato ad un
            albero, quello di uno dei maestri che ogni giorno arriva cavalcando da Goba. Intorno capanne e
            campi. Quando entriamo in classe si alzano tutti insieme, salutano in coro. Poi rimangono a scrutarci              silenziosi. L’insegnante ci dice che parecchi bambini sono assenti perché è giovedì, giorno di
            mercato…i genitori vanno a fare spese e i figli rimangono a casa a badare al bestiame.
           
C Carichi. Viaggiano sulle schiene delle donne. A volte rami lunghissimi, a volte pesanti sacchi
            che piegano i loro corpi. Pesanti o leggeri, non mancano mai. Gli uomini se li posano all’altezza del
            collo. Ci sono i carichi che si muovono in groppa gli asini. In particolare il mercoledì e il sabato,
            giorni di grande mercato, arrivano o tornano. Dietro di loro una donna a fare strada. E poi i carichi
che corrono sui carretti trainati dai cavalli, mucchi di sacchi o cumuli di fieno, o mobili da trasportare. Sulla cima se ne sta seduto il conducente con il frustino in mano.
           
D Diciotto. Gli anni di Yeblework che se n’è andata tre giorni dopo il suo diciottesimo compleanno. Da due
            anni malata di cancro, in una zona in cui un buon ospedale è forse troppo distante, o si aspetta e
            quando ci si arriva è ormai troppo tardi… Una sofferenza vissuta fino in fondo, senza alcuna terapia
            ad alleviarne i dolori. Solo le saggezza di due donne silenziose e dalle spalle larghe.
           
EElettricità. Da poche settimane al centro della principale e unica strada asfaltata di Goba sono comparsi i
lampioni, che però raramente abbiamo visto accesi. A volte non funzionano, altre volte manca l’elettricità in tutta la cittadina. Durante queste serate di buio totale è il cielo ad accendersi di stelle.

F Fistola ostetrica. Le donne che come Aster, occhi intensi e un sorriso che le accende il volto, sono affette
da fistola ostetrica a causa di un travaglio troppo lungo e all’assenza di sostegno ostetrico durante la gravidanza e al momento del parto per alleviare la pressione del nascituro. In molti casi il bimbo muore, ma Daniel, il figlio dia Aster fortunatamente è sopravvissuto. In questa parte del mondo dare alla luce un figlio può lasciare una pesante eredità nel corpo della madre. La fistola ostetrica infatti provoca incontinenza urinaria e/o fecale e una conseguente rifiuto da parte del marito e dell’intera comunità. La guarigione è possibile solo grazie ad un intervento chirurgico, ed Aster andrà ad Addis Abeba per sottoporsi all’operazione. Ma non tutte le donne lo sanno e non tutte facilmente riescono a raggiungere la capitale. 
           

G Genitori. Adnan ha due anni e mezzo. È cresciuto in un orfanatrofio di Addis Abeba, abituato da sempre
            alla sua “casa” e tante donne che si prendono cura un po’ di tutti… E, poche ore  dopo essere stato
affidato a due  “sconosciuti” arrivati dall’Italia, non può perdere d’occhio neanche per un istante la donna che ha già cominciato a chiamare “mamy”.
           
H HIV. Quella che Meron ha trasmesso a sua figlia. La bimba più piccola che io abbia mai visto, occhi grandi
e una pelle quasi trasparente. La mamma in ospedale e un corpicino troppo debole per vincere i tanti malanni. Due mesi e poi si è arresa.

I Immagine. Quella di una donna che cammina sul ciglio della strada. Come sempre sulla schiena il peso di
            qualcosa da trasportare verso casa, legato con una stoffa a quadri a mo’ di zaino. Per mano una
piccoletta di due anni, forse meno. La copia in miniatura, o il ritratto della donna che diventerà… Anche lei ha il suo piccolo carico da portare a destinazione e quasi le stesse tinte a colorarle la  schiena.
  
L Lavoro. Pensi di aver chiamato un semplice idraulico e pochi minuti dopo averlo conosciuto ti dice che…
            ha studiato fisioterapia, ma anche contabilità… che ora fa non solo l’idraulico, ma anche l’elettricista, 
            e pure il carpentiere. Per qualche birr in più al mese qui, da un giorno all’altro, si cambia
            professione, a discapito della qualità del lavoro.

M Money. Ritornello costante ad ogni incontro con un bimbo da questo parti. Il copione è sempre lo stesso
Ti vedono da lontano, ti corrono incontro, ti  stringono la mano e cominciano a chiederti: “Money, money!”, e se non gli allunghi niente allora ci provano con “Caramella, caramella!”. E poi rimangono a guardarti mentre ti allontani come l’evento della loro giornata…

N Novità. Quella di una lingua nuova, con suoni e segni che non ci appartengono, ma verso i quali
            cominciamo a lenti passi ad avvicinarci perché significa accorciare la lunga distanza tra noi e questo
            mondo nuovo per viverlo fino in fondo.

O Orto. Il nostro che, dopo una lunga attesa per vedere la luce, ora sta dando i primi frutti. La terra è
generosa. Per ora abbiamo raccolto costa, cicoria (che qui chiamano gommon), insalata… E forse tra un po’ arriveranno in tavola carote, piselli, zucchine, pomodori e la zucca!

P Passi. I primi quelli di Maskaram. Compiuti i primi di giugno da sola, senza alcun mano a stringere la sua o     
sostegno sul quale trovare appoggio. Dicono abbia quattro-cinque anni, ma  sembra ne abbia tre.
Maskaram che non ci sente,  che emette solo qualche suono, ma che parla con gli occhi, con le mani e con le sue “facce”. E ride. Tanto.

Q Quattro. I bimbi in groppa allo stesso asinello…hanno tutti meno di sei anni. Soli sul ciglio della strada 
               che da Goba porta a Robe. Dietro di loro si apre la campagna infinita. Lì probabilmente sostano le pecore e le mucche che hanno portato  a pascolare durante il giorno.
              
R Ramadan. In questa terra a prevalenza musulmana, la festa di fine ramadan è festa nazionale. Abdul Aziz,
uno dei colleghi di Stefano, ha voluto condividere la sua festa con noi e ci ha invitato nel villaggio dove abita, nel verde e nel silenzio della campagna che abbracciano la cittadina di Goba.
               Ci ha accolto, insieme alla sua famiglia, nella sua casa. Ci hanno offerto biscotti, il porridge e l’injera con il doro wot (pollo con una salsa piccante). Il cibo delle grandi occasioni.

S Strati. Sembrano non essere mai abbastanza… Quelli che indossano le donne: un paio di pantaloni, una
gonna o un vestito, un golfino,uno scialle, o più d’uno,  e un foulard che copre le spalle e il capo. Gli strati di stoffe che avvolgono i neonati e quelli delle coperte per tenere al caldo i pazienti nei letti di ospedale.

T Tenente Tosoni. È uno dei nomi che Mama Shashou (Mama è l’appellativo per le donne anziane) infila nei
               discorsi in amarico quando racconta l’Italia, arrivata nel suo paese, che lei ha conosciuto durante la sua infanzia… “Italiano governo, testa gallina, porca miseria, orecchio basso, come stare?, calci in culo, questo buono-questo non buono, morto, casa-legna, andare a  casa, dormire…”. Shashou che ogni giorno quando mi vede arrivare nel compound delle suore mi indica il posto accanto a sé e mi dice “Sedere qua!”.  
              
U Uolando. Così si chiama l’aquilone in amarico.  I bimbi per le strade sterrate di Goba corrono veloce per
            alzarlo in volo. Un lungo filo e  due bastoncini di legno infilati a regola d’arte in un foglio che un
            tempo stava al centro di un quaderno di scuola.
           
Vverde. Quello di questi prati africani che i tanti animali al pascolo, pecore, mucche, cavalli, asini,
               trasformano in prati inglesi. E poi le diverse sfumature di verde dei campi coltivati che si mischiano
               al colore della terra e delle strade.
              
ZZenab. Pioggia in amarico. In questa terra di coltivatori la gente la attende per il raccolto, per la propria
vita e quella del bestiame. Niente pioggia, niente erba da brucare. Pioggia che nei mesi di luglio e agosto scende in  acquazzoni di forti intensità, potenza che rovina le strade sterrate e ne rende molte impraticabili. Acqua che bagna le case di pali di legno e terra.



                                                                                                                                                                                 Anna